“L’amore per le cose assenti “, ovvero “Each man kills the thing he loves” parola di Luciano Melchionna

L’amore per le cose assenti di Luciano Melchionna è, a differenza di quello che potrebbe suggerire il titolo, uno spettacolo che ci restituisce il senso profondo di certe presenze e, ovviamente, la nostra frequente vocazione a sbarazzarcene.

Quasi una tragedia greca ma in formato ridotto, da camera, con tanto di prologo ed epilogo affidati ad una bravissima e ipnotica HER, creatura demiurgica o angelica, demoniaca o salvifica, che introduce e chiude il dramma con ironia e compassione, proprio come chi guarda le vicende umane dalle altezze siderali della sapienza e un po’ se ne fa beffa e un po’ se ne commuove.

Il conflitto è quello di sempre: il conflitto della coppia che “scoppia” ma stavolta Melchionna entra con il bisturi affilato del cinismo (o del realismo?) nelle lacerazioni vive dell’abbandono. Di un abbandono imprevisto e improvviso. Di un abbandono che – senza alcuna preparazione –  ferma il cuore degli amanti. Lo precipita nel pantano delle recriminazioni, delle offese e dei risentimenti.

Ed infatti, un grosso cuore palpita sul fondo della scena, un cuore che batte e si muove in sincrono con le dinamiche della sofferenza e della delusione, dell’amore e della memoria dell’amore.

I due protagonisti, sorpresi nell’atto in cui lui decide di lasciare lei nel giorno del suo compleanno, sono archetipi esistenziali di uno stato di crisi che, in realtà, ha coinvolto tutti almeno una volta nella vita.

E, grazie all’abbandono e alla sua devastante rappresentazione, Luciano Melchionna ci conduce anche all’interno di altre dialettiche proprie della vita di coppia e della naturale usura a cui è soggetta: la consuetudine o l’indifferenza per la routine, l’accettazione o il rifiuto per un fisiologico calo della passione e dei sensi, l’eccitazione o il disagio verso la possibilità di tornare ad essere single, l’attrazione per l’ignoto e quella per la serenità, il consuntivo finale che pende sempre a favore di chi lascia e ferisce, invece, l’orgoglio di chi è lasciato.

Il testo, dello stesso Luciano Melchionna, si distingue per profondità e costruzione narrativa e vive assai felicemente nell’interpretazione asciutta e intensa della bravissima Autilia Ranieri, mentre inciampa, talora, nella recitazione un po’ troppo marcata ed enfatica di Giandomenico Cupaiuolo.

Il finale, che a differenza del canone tragico presenta una conclusione gioiosamente erotica, suggerisce allo spettatore che la crisi è, in fin dei conti, una sorta di pungolo necessario a ripartire e che l’amore di per sé non ci rende né migliori né sinceri, né eterni né fedeli perché, come ci ricorda HER con i versi della Ballata del Carcere di Reading di Oscar Wilde: “Each man kills the thing he loves”.

Claudio Finelli

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