“Il Gabbiano” del Teatro Nazionale Serbo: 8 ore alla Stazione Leopolda

Una giornata teatrale con Fabbrica Europa dedicata al testo di Cechov per la regia di  Tomi Janežič.

10. Il Gabbiano _ Teatro Nazionale SerboNonostante le sette ore preannunciate (poi divenute otto) un considerevole pubblico ha partecipato alla maratona teatrale proposta dal Teatro Nazionale Serbo in occasione di Fabbrica Europa 2014. Segno che c’è ancora molta gente che ha voglia di teatro, e non solo per poche ore: persone che non si sono fatte spaventare dalla lunga durata dello spettacolo “Il Gabbiano” e hanno con piacere deciso di dedicare un intero pomeriggio/sera a Cechov presso la Stazione Leopolda di Firenze. Un autore, va ricordato, non certo leggero (fatta eccezione per i suoi magnifici atti unici). Un autore che indaga nell’animo umano e lo fa lentamente, toccando tante corde emotive. Un autore i cui personaggi, in fondo, sono accomunati dalla non-azione. Insomma sette ore di Cechov non scorrono via in un soffio. Eppure il regista Tomi Janežič ha trovato una formula molto interessante per tenere impegnato il pubblico dalle ore 16 a mezzanotte.

8.-Il-Gabbiano-_-Teatro-Nazionale-Serbo.jpg_1171891105Si è perso da anni il gusto del tempo da impiegare in teatro, come se l’impegno ormai fosse solo degli artisti, non del pubblico. Eppure in passato era uno dei luoghi più frequentati, dove confrontarsi e socializzare, faceva parte della vita quotidiana. Un’esperienza simile più o meno recente si era avuta durante l’edizione 2010 del Napoli Teatro Festival dove il tema della durata era stato centrale. Erano stati proposti, appunto, spettacoli di pochi minuti, mezz’ora, un’ora o due, ma anche di 7 ore, di un giorno (12 ore) o di più giorni (spettacolo a puntate). Risultò un’operazione interessante perché aveva dimostrato che anche brevissime rappresentazioni possono essere teatro e, contemporaneamente, che si può assistere a uno spettacolo per molte ore proprio come accadeva nell’antichità. Oggi si vive il tempo in modo diverso, manca quello da dedicare a se stessi e ai propri cari, figuriamoci che impegno ci vuole per trascorrere otto ore in teatro. Eppure qualcuno ha accettato la sfida.

4. AttoRitratto _ di Marco Bagnoli _ foto diIlaria Costanzo-0033“Il Gabbiano” di Janežič è diviso in quattro atti con intervalli di trenta minuti per far ristorare gli spettatori nella sala adiacente (succhi di frutta e salatini, ma anche prodotti tipici portati dalla compagnia come biscottini e tè); in ogni atto si assiste a una diversa fase dell’allestimento scenico a cui gli spettatori partecipano: hanno modo di essere testimoni dell’appropriazione graduale del personaggio da parte dell’attore (che naturalmente non consiste solo nell’aggiunta di volta in volta di elementi scenografici e costumi o in nuove pettinature). Pian piano gli interpreti entrano nei panni dei loro personaggi, ne indagano l’interiorità come insegnava Stanislavskij nei suoi due noti libri (“Il lavoro dell’attore su se stesso” e “Il lavoro dell’attore sul personaggio”); è una delle più grandi manifestazioni di empatia. Per una volta anche il pubblico è chiamato ad andare oltre, a conoscere i protagonisti dell’opera nel profondo, a farsi trasportare da loro insieme agli attori stessi. In un impeto irrazionale uno spettatore potrebbe anche alzarsi ed entrare in scena. In quel magico momento di condivisione (che ha caratterizzato soprattutto i primi due atti) tutto sarebbe stato possibile e addirittura naturale. Perché in scena c’erano tutti, perché il dramma coinvolgeva gli astanti in maniera personalissima.

14.-Il-Gabbiano-_-Teatro-Nazionale-Serbo.jpg_1171891105Non si può parlare di semplice rappresentazione, si tratta di un’esperienza unica, come affermò il critico teatrale Bojan Munjin, la cui voce registrata fa incursione durante la prova degli attori: «Gli spettacoli teatrali possono essere brutti, belli, talvolta appassionanti, ma raramente diventano qualcosa che possiamo chiamare un’esperienza unica». Raramente assistere a uno spettacolo ci permette di assaporare ogni aspetto del fare teatro. In questa occasione il testo di Cechov viene analizzato in ogni suo dettaglio («e i dettagli in Cechov sono importantissimi» afferma il regista presente in scena), come se lo si leggesse tutti insieme, ed è vero: un sospiro, un gesto, una didascalia hanno un significato che va studiato, e per una volta c’è tutto il tempo per farlo. Analisi del testo, lavoro sul personaggio, lettura scenica, improvvisazione, allestimento, messinscena: una pluralità di riti, di solito solo uno di libero accesso al pubblico.

11.-Il-Gabbiano-_-Teatro-Nazionale-Serbo.jpg_1171891105D’altronde “Il Gabbiano” è una riflessione acuta e puntuale sul teatro, sul mestiere dell’attore, ma anche sulla sua vita, su come la scena finisca per influenzarla radicalmente. Si sceglie di fare l’attore e, troppo spesso, si rinuncia alla vita privata, ai propri affetti. Ecco che il monologo della giovane Nina diventa il monologo di tutte le attrici, potrebbe anche essere pronunciato da Irina (nel testo un’attrice molto più matura). “Il Gabbiano”, però, è anche una storia di “amori”, di amori che distruggono, che succhiano l’anima e dopo non rimane più niente, si perde l’identità. Può essere l’amore per un uomo, per una donna, per un ideale, per un’ambizione. Cechov ne mostra la forma più avvolgente e stravolgente. Nella messinscena Janežič delinea i rapporti tra i personaggi dell’opera che diventano universalmente comprensibili: appare lì sulla scena Irina/Gertrude, che non sopporta le accuse del suo figlio Kostia/Amleto, e Nina/Ofelia, travolta dalle sue passioni e ignara del suo destino. Kostia (Filip Đurić), Irina (Jasna Đuričić) e Nina (Milica Janevski) sono figure universali, in loro è possibile vedere riflessi simboli di uomini e donne che appartengono a tutta la drammaturgia e a tutta la storia dell’umanità. Ci sembra di conoscerli da sempre.

7.-Il-Gabbiano-_-Teatro-Nazionale-Serbo.jpg_1171891105Nei primi due atti protagonista è il regista (Janežič che interpreta se stesso), il quale segue le prove degli attori, suggerisce loro i toni, i pensieri, i gesti. Al lavoro minuzioso sulle singole battute e sulle relazioni tra i personaggi si alternano scene d’insieme, quasi una sorta di improvvisazione sul testo: rilevante la scena “dei cavalli” nel II atto, il quale si conclude con un’esplosione di azioni: gli attori in scena imbrattano i teli che circoscrivono la scena, Nina si insinua nuda tra il pubblico, mentre scorrono le parole di Trigorin (Boris Liješević), simbolo della solitudine e dell’angoscia dello scrittore che, dopo aver dato il suo testo ad altri, è come se ne perdesse per sempre la paternità. L’equilibrio è spezzato. Scivolano tutti verso l’infelicità. Ne emerge un’immagine mista di corruzione, prostituzione, delusione, rabbia e morte.

L’inazione viene, invece, rappresentata nel III atto, in una sorta di camerino dove si ritrovano non gli attori nel ruolo di se stessi, ma i personaggi: come spesso accade nel testo di Cechov restano spettatori della loro vita, lasciano che gli eventi li annientino. Sono lì impassibili, in un luogo neutro, di ascolto, a seguire lo spettacolo che si consuma in un altro spazio. Possono anche provare emozioni, ma nessuno sceglie di agire. Anche in questo atto vi sono scena rituali d’insieme, come quella in cui ognuno fascia la testa all’altro dopo il primo tentativo di suicidio di Kostia. Oltre agli attori già citati (tra cui un intenso Filip Đurić) segnaliamo Boris Isaković (il Dottore), Ivana Vuković (Masha), Draginja Voganjac (Paulina), Dušan Jakišić (Sorin), Dimitrije Dinić (il maestro), Deneš Debrei (Shamrayev). In scena nelle molteplici vesti anche Jovan Živanović e Dušan Mamula, e le due suggeritrici/cameriere Milica Trifunović e Tijana Marković. Meritano di essere citati tutti non solo per la bravura e l’impegno dimostrati, ma anche per la dedizione a un mestiere che, a volte, mette veramente a dura prova. Infine, nell’ultimo atto, il ciclo si chiude. Si torna nel luogo dove tutto era iniziato, tra le sedie vuote, senza scenografia, al lume delle candele; anche gli attori hanno dimesso i loro abiti di scena e sono tornati casual. In scena in un appariscente abito rosso c’è Irina che canta. Prevale la malinconia, che preannuncia la vecchiaia e la morte e, infine, anche il suicidio.

5.-Il-Gabbiano-_-Teatro-Nazionale-Serbo.jpg_1171891105La messinscena di Tomi Janežič vince la sfida di studio e condivisione del testo con il pubblico per otto ore. A ogni fine atto simpaticamente ringrazia coloro che sono rimasti. Più faticoso risulta effettivamente il IV e ultimo atto, dall’atmosfera tenue e con le canzoni di Irina che cullano lo spettatore stanco. L’impegno persiste, ma vacilla anche di fronte all’ultima scena (forse troppo lunga) tra Kostia e Nina proiettata in un video e giocata su primi piani netti, sguardi penetranti, attimi di sospensione.

Alla fine di uno spettacolo di tale portata resta il rammarico per la lingua, la cui mancata conoscenza da parte del pubblico causa inevitabilmente dei gap di comprensione, non sempre colmati dalla traduzione simultanea: perché la parola dell’attore, la sua espressività, i suoi sentimenti sono nella voce; le cuffie privano di questo ascolto primario a teatro (motivo per cui si prediligono, di solito, i sopratitoli nonostante la fatica che anch’essi comportano), così come non permettono di sentire a pieno le musiche e i rumori di scena. La mediazione dell’interprete, inoltre, non consente di far arrivare l’effetto di determinate battute che giocano proprio sull’impatto diretto attore-pubblico; problematica dovuta anche al fatto che la traduttrice non è italiana, lingua del destinatario: per aiutare il pubblico, forse, è necessario un tramite linguistico che conosca bene la sua lingua e abbia gli strumenti per far arrivare almeno il senso di quanto detto. Nonostante ciò la riuscita della giornata teatrale non desta pentimenti. Si esce dalla Stazione Leopolda arricchiti e, anche se Cechov lo si conosce bene, sembra un po’ di averlo visto più da vicino.

FIRENZE – Stazione Leopolda, 11 maggio 2014

Mariagiovanna Grifi

 

IL GABBIANOAutore: Anton Pavlovich Cechov; Regia, allestimento e luci: Tomi Janežič; drammaturgia: Katja Legin; costumi: Marina Sremac; assistente costumi: Snežana Horvat; compositore: Isidora Žebeljan; suono: Tomaž Grom; assistente allestimento: Željko Piškorić; assistente alla regia: Dušan Mamula e Dimitrije Dinić; regia ed editing del film: Tomi Janežič; collaborazione all’editing: Brane Klašnja; riprese: Srđan Đurić; suono: Uroš Stojnić; tecnici luci: Miroslav Čeman, Marko Radanović; poster design: Tomi Janežič, Katja Legin, Srđan Đurić; produttore: Elizabeta Fabri; sound master: Dušan Jovanović; registrazione musiche: Zoran Marinković.

Cast: Jasna Đuričić, Filip Đurić, Dušan Jakišić, Milica Janevski, Deneš Debrei, Draginja Voganjac, Ivana Vuković, Boris Liješević, Boris Isaković, Dimitrije Dinić, Jovan Živanović, Milica Trifunović, Tijana Marković Dušan Mamula; musicisti: Aleksandar Ružičić (flauti), Borislav Čičovački (oboe).

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