Come un sussurro che sembra dire…“Proteggimi”

Fuori dal carcere, lo spettacolo realizzato dai detenuti della Casa Circondariale La Dogaia di Prato sul palcoscenico del Teatro Cantiere Florida.

Trae spunto dall’opera “A Streetcar Named Desire” lo spettacolo “Proteggimi”, il lavoro nato all’interno del carcere maschile di Prato grazie alla residenza artistica dell’associazione Teatro Metropopolare in collaborazione con il Teatro Metastasio di Prato. Livia Gioffrida firma la regia e la drammaturgia di questo dramma ispirato al più celebre – e più rappresentato – dello statunitense Tennessee Williams. Il lavoro presentato sul palcoscenico del Cantiere Florida giovedì 16 marzo fa parte della rassegna “Scena Libera Materia Prima”, una settimana di appuntamenti e incontri sul tema della detenzione suddivisi tra il Teatro, la Casa Circondariale di Sollicciano e la Sala degli Specchi di Palazzo Medici Riccardi. E sono proprio i detenuti i protagonisti di questo lavoro, accompagnati nella messa in scena da attori professionisti. La rappresentazione è il frutto di un rigoroso laboratorio di ricerca teatrale realizzato nel carcere La Dogaia di Prato luogo in cui, peraltro, venne già presentato lo spettacolo nel febbraio del 2016. In quell’occasione furono gli spettatori ad entrare dentro il luogo della reclusione, adesso sono stati gli attori ad uscire fuori quei confini.

Sul palcoscenico ci sono solo uomini liberi di esprimere la fragilità delle relazioni, il concetto di perdita, il tema della follia e quello del desiderio. L’opera sembra nascere nel momento in cui viene proposta, con tanto di deux ex machina che accompagna il pubblico agli argomenti dell’opera e ne osserva, talvolta quasi impotente, lo svolgimento e la sua naturale risoluzione. Un’opera «incomprensibile, ma straordinariamente ricca, che nasce come una bambina che piange e sembra dire “proteggimi”», in cui «il tempo scorre lentamente» nelle vite di donne così fragili da sembrare «fatte di vetro». Con queste parole, e in un accento molto americano, veniamo accompagnati dentro la vicenda che si discosta dalla New Orleans degli anni Quaranta immaginata da Williams, pur mantenendo personaggi e temperamenti di ognuno. Stanley, prepotente e violento, un «bruto» con «la tracotanza orgogliosa del maschio, in paziente attesa che le facoltà mentali si affinino», Stella, taciturna e silenziosa Blanche, “affetta” da un melanconico squilibrio e senso di alienazione alla vita.

La signora DuBois, dopo aver perso tutto, irrompe nella vita della sorella alterandone gli equilibri; Stella si è infatti allontanata dalla vita cui era destinata e, nella scelta di amare un giovane marocchino, ha accettato il compromesso di vivere secondo gli standard della sua cultura. L’attrazione e l’affetto verso di lui si manifestano con regolarità anche dopo azioni di prepotenza e aggressività in cui la donna sembra essere ostaggio non tanto fisico, quanto psicologico, di un “codice penale” maschilista che –solo in parte- autorizza alla violenza. Ma «passione e violenza possono essere correlate?» domanda Blanche al suo più diretto nemico, offrendo in realtà la condizione di una riflessione più ampia anche allo stesso spettatore. In questa concezione di malata protezione che dalla possessiva difesa sfocia nella aggressività per tornare, ciclicamente, all’unico senso di rifugio possibile, sembrano dirci che nella vita («una vita di merda dove nessuno ci aiuta») è importante scegliere le carte giuste nonostante l’esito della partita sia comunque incerto. Il gioco del poker viene preso come metafora all’esistenza perché nel gioco, come nella realtà, possono essere messe in atto abilità che vanno a influenzare gli altri giocatori secondo valutazioni di probabilità che permettono di intuire le mosse altrui, in modo da precederle o condurle nella direzione più adatta a chi, con onestà o semplice astuzia, vuole solo vincere. «Life is a poker game. You win. You loose. Sometimes I win. Sometimes I loose» dice, quasi con un senso di resa, Robert Da Ponte in apertura dello spettacolo. Non a caso vengono consegnate delle carte agli spettatori. «Take a cart». Prendila. Quella che, del mazzo, ti capiterà non è dato saperlo. Ma sta a ognuno di noi scegliere in che modo e soprattutto quando puntarla.

E questo senso di imprevedibilità della vita in cui però abbiamo comunque una facoltà di arbitrio rispetto alle situazioni in cui ci troviamo, è un fattore universale. Sul palcoscenico, infatti, si mescolano le lingue: italiano, americano, cinese, arabo. L’incomprensibile diventa comprensibile da traduzioni in lingua che sembrano come un’eco teso a sottolineare solo il significato di un messaggio che vuole – e deve – essere assoluto. E niente è più assoluto di una stretta di mano, quella che gli attori tendono agli spettatori in apertura del dramma. Una vicinanza che diventa anche fisica, niente muri, limiti, sbarre che dividono la libertà dalla reclusione. Un momento in cui è esistito solo l’arte del teatro e le infinite realtà possibili di cui il palcoscenico diventa l’unico, e più autentico, custode. Non conosciamo le storie o le pene di quelle persone arrivate con l’autobus della polizia penitenziaria parcheggiato proprio davanti all’ingresso del teatro. Per una sera, l’unica carta che tutti abbiamo voluto giocare, è stata quella che ci ha permesso di essere, indistintamente, parte della stessa esperienza.

Laura Sciortino

Firenze, TEATRO CANTIERE FLORICA 16 marzo 2017

PROTEGGIMI – MATERIA PRIMA SCENA LIBERA a cura di: Murmuris Versiliadanza; drammaturgia e regia: Livia Gionfrida; scene: Alice Mangano; assistente alla regia: Giulia Aiazzi; con: Robert Da Ponte, Rodrigo Romagnoli, Ayoub El Mounim, Rossana Gay, Livia Gionfrida, Sofien Gozlan, Wu Kejan, Lorenz Marini, Luca Florin; progetto grafico: Laura Meffe; organizzazione: Rebecca Polidori; produzione: Teatro Metropopolare; in collaborazione con: Teatro Metastasio di Prato

 

 

Share the Post:

Leggi anche