Disobedience

Una vicenda ambientata in una comunità londinese dei ebrei ortodossi offre l’occasione per una riflessione di alto profilo sulla libertà di scelta e sulle possibili declinazioni dei rapporti di amore

Sono diverse le ragioni per cui vale la pena di vedere Disobedience, di Sebastiàn Lelio, e non solo per lo specifico cinematografico, peraltro splendido.

Per chi non ha una contiguità con il mondo ebraico, il film ne restituisce con fedeltà alcuni aspetti non noti. L’ambiente in cui si svolge la vicenda è il quartiere londinese di Golders Green, ove fin dall’800 si è insediata e radicata una comunità di ebrei ashkenaziti ortodossi. I loro cognomi rivelano origini tedesche, bielorusse, cecoslovacche, ungheresi. Quella attuale è ormai la terza, quarta generazione, integrata nel tessuto sociale inglese ma che, di regola, ha mantenuto con rigore le sue tradizioni: gli uomini portano la barba; indossano completi scuri sulla camicia bianca, per lo più senza cravatta, e copricapi neri di feltro a falda larga. Le donne non si distinguono dalle loro concittadine, se non per l’uso, da maritate, di portare in pubblico una parrucca, spesso anche molto elegante.

Il film inizia all’interno della sinagoga, ove l’anziano rabbino capo Rav Krushka, commentando un passo della torah, stramazza a terra. La figlia Ronit, che da anni ha rotto ogni legame con la famiglia e si è trasferita a New York, dove fa la fotografa, appresa la morte del padre, decide di tornare a Londra, per onorarne la memoria. L’incontro con i parenti e gli amici di un tempo non è del tutto indolore, né privo di complessi risvolti emotivi. In particolare, quel ritorno risveglia il sopito, giovanile interesse saffico per Ronit da parte della dolce Esti – nel frattempo sposata a un comune amico d’infanzia, Dovid Kuperman, ora dedito allo studio della torah – sconvolgendone i labili equilibri affettivi.

Ma – e questo è il secondo, notevole motivo di interesse del film – anche il riaffiorare e il realizzarsi del rapporto lesbico fra Ronit ed Esti, pur nella sua resa realistica, è rappresentato con commovente pudore e delicatezza, modalità rare in una cultura iconica che ha devastato, senza superarli né metabolizzarli, i tabù del sesso.

Ancora più importante, in questa atipica vicenda, è il rovesciamento delle dinamiche del triangolo amoroso che viene a crearsi, tanto più sorprendente in quanto vissuto – e sofferto – nel contesto tradizionalista degli ebrei ortodossi di Golders Green.

Con Jules e Jim, fedele trasposizione del romanzo omonimo di Henri-Pierre Roché, François Truffaut aveva saputo proporre forme di rapporto umano e sentimentale rivoluzionarie e scandalose per quei tempi (era il ’62), tanto che il film, malgrado non vi comparisse alcuna scena di sesso, era stato vietato ai minori di diciotto anni. Quell’opera aveva influenzato l’educazione sentimentale di tanti giovani della mia generazione. Mi sembra che Disobedience, come il film di Truffaut, possa incidere in modo non meno rilevante nel comune sentire, su un tema ancora oggi accettato con difficoltà.

Ma il carattere più originale e innovativo del film, che trae origine dal romanzo in parte autobiografico dell’ebrea londinese Naomi Aderman, sta nel dipanarsi e sciogliersi di quel triangolo amoroso; fino a una sorta di sublimazione, evocata nel sottofinale dalla intensa, poetica, quasi surreale scena di un abbraccio a tre, che coinvolge anche Dovid (cui, da ebreo ortodosso, non sarebbe consentito, come si sottolinea in una brevissima inquadratura iniziale, alcuna contiguità fisica con una donna che non sia la moglie).

Il film non si conclude con un finale consolatorio; non ci sono vincitori né vinti: solo una dolorosa ma necessaria presa di coscienza, e l’affermazione del principio della libertà di scelta, ancorché dolorosa: un messaggio solo apparentemente eversivo, ma di fatto portatore di un alto valore etico.

Tutto ciò è raccontato con fascinosi primi piani, con gli sguardi e la misurata intensità dei volti delle due splendide protagoniste: la più matura, fiera Ronit di Rachel Weisz e la timida, ma non meno determinata Esti di Rachel McAdams.

Sullo sfondo, un paesaggio antropologico poco conosciuto, di un mondo che a primo sguardo può sembrare anacronistico, eppure non estraneo alla civiltà occidentale; popolato di figure inconsuete ma credibili, dipinto dal regista – non ebreo – con empatica attenzione e rispetto.

Claudio Facchinelli

Disobedience

Regia di 

Produzione Braven Films, Element Pictures, LC6 Productions, 2017

Clicca QUI per il trailer ufficiale

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