Don Giovanni – Festino ai tempi della peste

Pur essendo vissuto meno di quarant’anni, Puškin (quasi esattamente coevo del nostro Leopardi) ha lasciato una ingente produzione letteraria. Da questo patrimonio poetico e teatrale i musicisti russi della generazione successiva, da Glinka a Dargomižkij, a Musorgskij, a Čajkovskij, avrebbero attinto a piene mani, traendone vuoi testi per romanze, vuoi libretti per opere liriche. A parte il monumentale Boris Godunov, i testi teatrali sono, per lo più, schizzi drammaturgici, a volte incompiuti.

Una trentina di anni fa, Ljubimov aveva avuto l’idea di mettere in scena, tutte insieme, queste opere minori, costruendo un filo rosso che le collegasse.

Alberto Oliva, da tempo attratto dal pianeta della letteratura russa, si è mosso su un solco parallelo. Nel suo Don Giovanni – Festino ai tempi della peste ripropone il puškiniano Convitato di pietra (Dargomižkij ne aveva tratto l’omonima opera lirica), utilizzando come prologo Festino in tempo di peste, un breve schizzo drammatico, che Puškin fa derivare da The city of the plague, dello scozzese John Wilson.

I due testi sono legati dal tema della morte, e dei modi con cui gli umani, da sempre, tentano di contrastarla, di esorcizzarla. Anche il Decameron esplora lo stesso topos ma, mentre in esso la beffardia e il vitalismo italico sembrerebbero prevalere sulla morte, nelle pagine di Puškin è riconoscibile, sotto traccia, una sorta di cupio dissolvi. Non casualmente, nella letteratura russa è tipica – e tragicamente ricorrente – una condizione autodistruttiva che accomuna almeno due generazioni di poeti, all’inizio sia dell’800, sia del ’900.

Un atteggiamento esistenziale che Alberto Oliva e Mino Manni, responsabili a quattro mani della drammaturgia, ci vogliono suggerire essere ancora presente ai giorni nostri.

1DonGiovanni regia A.Oliva SX G.Latina,G.Goria, M.Ossoli ,G.Nitti FOTO MarchesiI due testi, peraltro, sono rispettati nella loro sostanziale integrità, e si riconosce nella messinscena un serio lavoro di preparazione e documentazione. Poche, ma non peregrine, le licenze che la regia si concede: i duelli non sono all’arma bianca, ma alla pistola, e ciò consente la citazione di una scena (resa famosa da un vecchio film di Renato Castellani) tratta dai puškiniani Racconti di Belkin, dove un duellante mangia delle ciliege in attesa del colpo di pistola che potrebbe ucciderlo. Un tocco che, in leggerezza, caratterizza con coerenza la lettura che Puškin offre del burlador de Sivilla.

Dello spettacolo si apprezzano le invenzioni scenografiche, sia nella loro inquietante suggestività figurativa, sia nella funzionalità ad alcune idee di regia. Una serie di cassoni traboccanti di cadaveri, divengono ora mensa su cui brindare, ora carro trascinato da un monatto, ora alcova, ma da essi si caverà pure una chitarra o, a sorpresa, sbucherà una vitalissima, provocante figura femminile.

Fin dall’inizio, una sfrenata, sensuale danza da discoteca spiazza piacevolmente lo spettatore, sganciando l’azione dalla collocazione storica che il testo poteva suggerire. Le musiche originali di Bruno Coli trascorrono con intelligenza teatrale dal rock più duro al tema del Dies irae, fino a una appena riconoscibile rielaborazione della Ciaccona di Bach. Spiritosa la soluzione del monumento funebre del Commendatore, trasparente citazione delle statue viventi del teatro di strada.

Una sommessa riserva per l’inutile ammiccamento che trasforma Leporello in un gay, e sull’uso – che speravo ormai defunto – dello stroboscopio, invasiva presenza che negli anni Settanta spaccava sistematicamente gli occhi dell’incolpevole spettatore.

Ma si tratta di peccati veniali. Nel suo insieme lo spettacolo è accurato e godibile. E fa piacere riconoscere una squadra di attori bravi, affiatati e ben diretti, per lo più giovani; a loro agio anche nei differenti registri espressivi (danza, canto) declinati dalla drammaturgia. Gradevoli, accattivanti i siparietti musicali (previsti dal testo), affidati alle due avvenenti ed efficaci interpreti femminili: la procace Guenda Goria, la più severa, statuaria Marta Ossoli.

All’autorevole presenza scenica di Mino Manni tocca anche il compito di creare il collegamento fra i due testi: il lamentoso frate nel Festino si libererà della tonaca assumendo il ruolo di un Don Giovanni, il cui beffardo cinismo illuminista (pensiamo a Da Ponte, più che a Molière) risulterà filtrato dalla sensibilità ottocentesca, ormai romantica di Aleksandr Sergeevič.

Claudio Facchinelli

Don Giovanni – Festino ai tempi della peste. Drammaturgia di Alberto Oliva e Mino Manni da Aleksandr Puškin. Regia di Alberto Oliva. Con Mino Manni, Marta Ossoli, Guenda Goria, Giancarlo Latina e Giuseppe Nitti. Musiche originali di Bruno Colli; scene di Alessandro Chiti; costumi di Laroy Costumi Teatrali; disegno luci di Alessandro Tinelli.
Produzione di Teatro Out Off in collaborazione con I Demoni
Visto al Teatro Out Off il 2 dicembre 2015
In scena fino al 20 dicembre.
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