È scomparso David Bowie, l’icona del rock

Sembra l’ennesimo colpo di teatro. David Bowie ci ha lasciati improvvisamente durante la notte del 10 gennaio, a due giorni esatti dal suo sessantanovesimo compleanno e data di uscita della sua ultima opera, “Blackstar”. La notizia data dal figlio Duncan su Twitter ha colto tutti di sorpresa, nonostante l’artista fosse affetto da tumore da più di un anno e mezzo, malattia rimasta segreta fino all’ultimo momento.

Sembra quasi l’ultimo capitolo della storia di un’artista che ha fatto della narrazione il proprio impianto artistico. David Bowie è stato probabilmente il primo ad aver capito in maniera cosciente il concetto di “rockstar”, figura che in certi momenti può anche essere totalmente avulsa dalla semplice musica, e ad utilizzarlo per inviare il proprio messaggio. È stato volontariamente un’icona, mettendo al centro dell’opera il proprio corpo, modificandolo nel corso degli anni a seconda della storia da raccontare. La musica è stata solo una parte di una strategia comunicativa molto più profonda.

Due sono stati i temi più battuti dall’artista e che lo hanno accompagnato fino alla fine: quello della fantascienza, utilizzata per mostrare un senso di alienazione e di estraneazione; e l’ambiguità sessuale, mostrata già a partire dall’immagine androgina di due dei suoi primi dischi “The Man Who Sold The World” e “Hunky Dory”. Per questo motivo è impossibile parlare di Bowie senza considerare l’enorme tesoro di immagini e icone lasciate da lui e da tutti i suoi alter ego.

A partire da Ziggy Stardust, vero e proprio simbolo del glam rock di inizio anni ’70, alieno caduto sulla terra e morto suicida, a passare al Duca Bianco di “Low” e “Heroes”, portando con sé atmosfere decadenti e quasi cyberpunk, fino al detective Nathan Adler, di “1. Outside” del ’94, primo album/thriller della storia, e prima opera di quello che doveva essere un progetto rimasto poi monco.

La grande longevità artistica di Bowie è dovuta anche a questo, alla sua capacità di riuscire sempre ad adattarsi ai tempi, grazie anche ad una grande abilità nell’assorbire le intuizioni e sperimentazioni altrui. Una capacità che gli ha permesso di comprendere, più che innovare: se alla meta dei Seventies, Bowie ha provato sonorità più vicine al funky e alla black music, alla fine degli anni ’70 con “Low” e “Heroes” ad esempio, ha potuto penetrare kraut e alla kosmische music, grazie all’atmosfera di Berlino e all’aiuto di un personaggio come Brian Eno, continuando poi negli anni ’80 con il synth pop e nei ’90 con l’Industrial di Trent Reznor.

Tracciare una linea diritta che riesca a raccontare Bowie è complicato, se non quasi impossibile. Non si può ridurre a poche parole la sua attività da produttore, senza rendere giustizia ad album come “Transformer” di Lou Reed; come allo stesso tempo la sua carriera di attore meriterebbe un articolo a parte: basti citare soltanto il suo ruolo in “Furyo”, in cui David assieme a Ryuichi Sakamoto mettono in scena un amore omosessuale in un ambiente militare giapponese (nel film compare anche Takeshi Kitano), oppure Jareth il Re dei Goblin in “Labyrinth”, altro personaggio entrato a far parte dell’iconografia, oppure ancora la partecipazione in un’opera cult come “Twin Peaks” di David Lynch.

Per questo motivo la morte di Bowie sembra essere semplicemente l’ultima trovata dell’artista; la morte che diventa l’ultimo capitolo di una vita vissuta come un’opera d’arte, l’ultimo colpo di teatro che l’ha portato a comporre un album-testamento come “Blackstar”, e non è un caso che il singolo scelto sia una canzone intitolata “Lazarus” (accompagnata dall’ennesimo grande videoclip). Il testo che prima poteva sembrare criptico, ora è più che chiaro: “Look up here, I’m in heaven. I’ve got scars that can’t be seen, I’ve got drama, can’t be stolen” (“Guarda qui in alto, sono in paradiso. Ho cicatrici che non possono essere viste, ho una recita che non può essere rubata”). Questa è l’ultima metamorfosi, e chissà se come Lazzaro tornerà a camminare o molto più probabilmente, continuerà a camminare nella nostra immaginazione.

Francesco Di Maso

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