“Ecuba” secondo Manfroce a Martina Franca

 

 

NICOLA ANTONIO MANFROCE

 

ECUBA

 

Tragedia lirica in due atti

 

 

Libretto di Giovanni Schmidt

 

Direttore Sesto Quatrini
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Luci / Regista assistente Massimo Gasparon

Achille Norman Reinhardt
Priamo Mert Süngü
Ecuba Lidia Fridman (30 luglio)
Polissena Roberta Mantegna
Teona Martina Gresia
Antiloco Lorenzo Izzo
Duce greco Nile Senatore

Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Maestro del Coro Corrado Casati

 

 

L’atto di hubris di Ecuba nella versione musicale di Manfroce

 

Si suole ripetere che la storia (ed a maggior ragione quella musicale) non possa esser (ri)costruita con i se ed i ma. Ed è concetto giustissimo.

Talvolta, tuttavia, il diritto alla necessità di fantasticare si palesa all’intelletto imponendo al soggetto pensante una ipotetica e fantastica ricostruzione di come sarebbero andati gli eventi, come si sarebbero sviluppati i fatti se un importante tassello della storia non fosse venuto meno o si fosse manifestato ad un dato punto dello scorrer degli enenti.

È ciò che accade ripercorrendo la vita brevissima del riscoperto autore calabrese Nicola Antonio Manfroce, formatosi musicalmente a Napoli nel primo decennio del 1800 e morto giovanissimo all’età di ventuno anni nel 1813, a causa di un morbo sconosciuto; compositore di cui siamo debitori di ben due opere – Alzira ed Ecuba – e di qualche lavoro sacro che ancora attende di riveder la luce, chiuso da decenni nei polverosi scaffali delle biblioteche musicali.

Di Ecuba si registra solo una ripresa al teatro Rendano di Cosenza nel lontano 1991 – finita nelle spire dell’oblio più tetro per mancanza di un video o di un’incisione decenti – ed un’edizione discografica di mediocre qualità; il Festival della Valle d’Itria, pertanto ha deciso di puntare con un cast di eccellenza ed uno studio approfondito su questo autore e sul suo capolavoro (di cui le cronache ci riferiscono avesse furoreggiato al teatro San Carlo nel 1812). L’ascolto dell’opera ripropone il quesito iniziale, la fantasticheria che ricostruisce in senso parallelo la storia (della musica): cosa sarebbe accaduto se Manfroce fosse vissuto abbastanza da maturare la propria arte musicale? Quale sarebbe stata la storia della musica? I suoi risvolti, i suoi sviluppi?

È un interrogativo che tanto più avvolge il pensiero di chi scrive in quanto destato dalle parole di Rossini in persona che, oramai celebre ed affermato, citava l’oramai scomparso autore calabrese per lodarne il genio musicale meditando su quali mirabili capolavori avrebbe donato al mondo musicale se gli eventi della vita fossero stati più clementi con lui.

Effettivamente l’ascolto di Ecuba denota una precoce maturità e una pienezza delle capacità espressive vocali ed orchestrali; Manfroce indubbiamente ha tenuto a mente la lezione di tre grandi musicisti che lo hanno preceduto: Spontini Mozart e Gluck. Del primo lo stile grandioso e nobile traspare da ogni nota dell’opera, in particolare l’ouverture, dove concitate terzine dei violini tratteggiano frasi musicali sui quali incide il disegno musicale dei legni: la contrapposizione tra lo stato d’animo di Ecuba e della figlia Polissena.

Intera opera è agitazione dei sentimenti privati rispetto ai quali lo scontro di civiltà, l’epica guerra tra popoli a Troia è appena disegnata sullo sfondo, elemento presupposto nel libretto e dall’ascoltatore che immediatamente vede il corpo martoriato di Ettore portato da un gruppo di necrofori su un altare intorno alle cui spoglie si erge il disegno di pace mediante le nozze tra Polissena ed il nemico Achille, uccisore di Ettore. Ma è a questo punto che si arresta la vicenda “politica”, appena sottolineata da un libretto che conferisce risalto alla passione ed ai sentimenti individuali e contrastanti che attraversano le personalità di Ecuba (desiderosa di una vendetta a tutti i costi anche al prezzo di compiere un infame atto di hubris scatenante la catastrofe finale) e di Polissena, realmente innamorata (e ricambiata) da Achille, anch’egli desideroso di pace tra popoli.

Tale la struttura del dramma che ha fatto da sfondo alla regia firmata da Pier Luigi Pizzi, nome internazionale non abbisognevole di alcuna presentazione e da anni ben noto al festival il quale, sfruttando il precedente impianto de Il matrimonio segreto, ha adoperato i tre riquadri sulla scena per collocarvi ai lati il popolo di Troia in persona del coro maschile e femminile ed al centro l’intera vicenda a partire dal trasporto del corpo di Ettore morto sulla note dell’ouverture collocato a mo’ di una deposizione del figlio morto sul quale si riversa la disperazione della madre protagonista.

Palcoscenico prosciugato da ogni inutile orpello, pochi i riferimenti alla Grecia classica ed alle vicende mitologiche il reale protagonista è concepito la trama di sentimenti contrastanti che avvolgeva le due protagoniste: Ecuba e Polissena; quest’ultima innamorata dell’uccisore del fratello e desiderosa di sposarlo (con il benestare del padre Priamo al quale interessa la pace del suo regno); la prima, al contrario disperata per la morte del figlio  e bramosa solo di una (inutile) vendetta. Tali gli elementi che hanno meditato una recitazione ridotta all’osso e quasi lasciata all’improvvisazione dei cantanti. Bellissimi i costumi, ideati dallo stesso Pizzi, di colore viola acceso, che imponevano il contrasto tra il lutto serbato dai Troiani ed i cori festosi che inneggiavano alle nozze tra Achille e Polissena.

La resa musicale ha dimostrato come il giudizio di Rossini sul giovane (e probabile rivale) Manfroce non fosse fallace: la ricchezza orchestrale e il temperamento delle arie denota una maturità del giovanissimo compositore palmitano i cui sviluppi avrebbero donato all’umano genere, se un improvviso morbo non lo avesse rapito all’età di ventuno anni, capolavori indescrivibili: il tutto esaltato dalla bacchetta dell’oramai collaudato direttore Sesto Quatrini (sostituto a pochi giorni dalla prima di Fabio Luisi) nome oramai di fama internazionale; bacchetta agile e muscolare che ha saputo interpretare a meraviglia il caleidoscopio di colori che la partitura offriva da Spontini a Gluck, alla immancabile lezione di Mozart (soprattutto dell’Idomeneo) e financo con tempi che evocavano Bellini in una straordinaria lirica cantabilità in particolare nell’aria di Achille “là nel bollor dell’armi/fra tante stragi e tante”.

Di primo livello anche il cast vocale formato dalle due protagoniste Ecuba (Lidia Fridman) e Polissena (Roberta Mantegna).

La prima ha avuto il merito di studiare ed imparare la parte a pochi giorni dalla prima, chiamata a sostituire la già scritturata Carmela Remigio e sfortunatamente colpita da un malore.

Due vocalità assai diverse tra loro, tanto chiara, limpida e cristallina la voce lirica della Remiglio, quanto brunita e tendente verso un registro grave quello della Fridman che, tuttavia, ha cantato benissimo le due arie, irte di difficoltà, di Ecuba ed ha conferito nobiltà al pathos della madre stretta tra il dolore della perdita del figlio e la ragion di stato che le impone di accettare come genero l’uccisore di Ettore. La voce è possente ed il timbro assai suadente; qualche tentennamento negli accenti che avrebbero richiesto qualche prova in più.

Parimenti Roberta Mantegna, anch’ella nome ben noto non solo al festival ma anche ai grandi teatri che le spalancano le porte (in particolare si avrà il piacere di ascoltarla nella versione francese de i Vespri al teatro Costanzi a Roma) è cantante dotata di temperamento forte e voce dallo squillo potente, di quelli che corrono indomiti attraverso la sala senza tema di essere sovrastati dall’orchestra. Essa è personaggio allo stesso tempo nobile ma con una naturale umanità: disposta ad amare il nemico al di là della convenienza politica, al punto da sacrificare se stessa.

Quanta nobiltà d’accento e, allo stesso tempo, quanta accesa femminilità nell’aria “oppresse dal dolore/eran le mie pupille”; e quanto umano abbandono nell’ampio duetto d’amore che riempie bran parte del secondo atto!

I ruoli maschili, sebbene disegnati come di secondo rilievo dal libretto, musicalmente sono tratteggiati da parti di estrema difficoltà e che richiedono professionalità di prima sfera.

Mert Süngü è tenore lirico, proteso al registro acuto della voce, che interpreta Priamo; giovane cantante galantuomo nella vita e generoso nella sua espressione artistica. Ha disegnato un Re di Troia non incollato come una figurina sullo sfondo di eventi più grandi di lui, ma gli ha conferito regalità, pur piegato ai moti del suo animo che in varie occasioni lo hanno (letteralmente) atterrato e contorto in ragione dell’ineluttabilità del fato. Mirabile il controllo della voce capace di sostenere la voce nella zona acuta in pianissimo: ascoltisi l’aria “pari a te nel cor la voce” ilo cui duolo paterno si evidenzia nell’ultima nota del verso “deh perdona al genitor” mirabilmente e nobilmente tenuta.

Achille, al contrario, richiede una vocalità più scura, tipica del bari tenore: voce molto simile a quella richiesta dal grande Rockwell Blake e che, nella serata del festival è stata affidata al bravissimo Norman Reinhardt dotato di un notevole strumento vocale capace agilmente di spostarsi tra le note gravi e quelle acute senza perdere né accento né consistenza. Mirabile sarebbe una sua prestazione in un ruolo spontiniano quale Licinio nella Vestale, nel ruolo di Achille ha conferito dignità ad un personaggio altrimenti fragile e, ove superficialmente studiato, che finirebbe ad essere relegato tra gli eroi di cartapesta sballottato tra i flutti del destino.

L’artista ha conferito al personaggio dignità regia, accento vibrante e notevole capacità di autodeterminazione soprattutto negli ampi recitativi dell’opera nei quali l’eroismo del personaggio si fondeva con la sua delicata umanità di uomo, tutto sommato, schivo alla guerra e proteso alla pace mercè lo stringere di nodi con la donna amata, sebbene proveniente dalle schiere dei nemici.

Mirabile prova altresì è stata fornita dal Coro del teatro municipale di Piacenza guidato da Corrado Casati: ad esso erano riservate pagine ampie e notevoli con squarci di sapiente polifonia che denotavano la formazione musicale di Manfroce su composizioni sacre. Irresistibile il climax drammatico del terzo atto ove lo stridìo dei sentimenti di gioia per le imminenti nozze e il senso di vendetta che alligna al fondo dell’animo di Ecuba sono raffigurati musicalmente in un quartetto di rara potenza evocativa e drammatica.

Un’opera da sentire, da vedere e, soprattutto, da riscoprire, così come ci si augura che i teatri, incuriositi dall’interesse che essa ha suscitato nella RAI (che ne fornirà la visione sul canale tematico destinato alla cultura) possano riproporre operando così un parziale risarcimento nei confronti di una interessante figura musicale ingiustamente colpita da un infausto destino che, indirettamente, ha sferrato il suo colpo anche su di noi.

 

Recensione che si riferisce alla recita del 30 luglio 2019

Pietro Puca

 

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