Il legame come una catena ne “Il padre” di Gabriele Lavia

Al Teatro della Pergola va in scena la tragedia di August Strindberg, il capolavoro sulla progressiva perdita di certezze e la caduta nell’abisso di un uomo, un comandante, uno scienziato, un padre.

«Figlia mia…mia…tutta mia…solo mia». È vero, un figlio appartiene ai genitori ma non nei termini di una cosa di cui si è proprietari del «mi» appartiene o, con più forza, dell’appartiene a «me». Sul finire dell’Ottocento, quando ancora non era possibile provare scientificamente la paternità di un uomo, però, la madre poteva anche arrogarsi il diritto di esprimere simili affermazioni. Solo su di lei, infatti, si poteva avere la salda certezza dell’ “origine” , quando ancora la tecnica del DNA non permetteva di esprimere con altrettanta sicurezza, invece, la paternità.

Gabriele Lavia porta in scena l’opera, anzi «il testo scritto con l’accetta e non con la penna» di August Strindberg; il dubbio e la non-consapevolezza di sé sono le angosce che tormentano il protagonista e lo conducono, progressivamente, a una tragica resa dominata dalla sola follia, quella di chi lo circonda e quella che guiderà i suoi pensieri fino alle ultime azioni. Il palcoscenico è invaso dal colore del sangue e della passione, di un intenso, deciso e quasi “violento” velluto rosso; due porte laterali e una grande finestra sullo sfondo dalle quale non si scorge nient’altro che grossi fiocchi di neve, segno di un inverno rigido e «freddo». Sulla scena delle poltrone, un divano, un orologio a pendolo e una scrivania, simboli per eccellenza del luogo di raccolta della casa, dove il nucleo familiare -e sociale – si riunisce. Ognuno di questi elementi, però, sembra essere sul punto di cadere, ha una strana inclinazione come se qualcuno, dall’alto, avesse scosso quel “contenitore” lasciando le cose in bilico, quasi a voler sottolineare che niente è stabile, seppur vorrebbe apparire tale.

Ciò che invece è “fermo”, sistemato e organizzato secondo un preciso ordine sta in un angolo del proscenio e sono le pile di libri, il mappamondo, lo spettroscopio e un teatrino di burattini, tutto ciò che appartiene all’Adolf-Lavia, il capitano di cavalleria che subisce, soggiace e infine soccombe al potere delle donne della propria famiglia, dalla figlia Berta (Anna Chiara Colombo), alla Balia (Giusi Merli), ma soprattutto alla fredda e impassibile moglie Laura (Federica di Martino). Non avendo, per legge, potere decisionale sull’educazione della figlia, la donna inizia a «instillare dentro l’orecchio» del marito i sospetti che non sia lui il vero padre della figlia. Un dissidio che nasce dalla volontà di Lui di mandarla a studiare in città, a respirare il mondo lontana dalle «donne ignoranti, superstiziose e ciarlatane» di una casa in cui non vi è progresso o evoluzione se non quello auspicato dal comandante-scienziato. A ostacolare questo tentativo per “salvare” l’unica erede dalle grinfie delle altre figuri femminili di casa, la volontà di Laura che invece non vorrebbe allontanarla da quel luogo di assoluta protezione. Quanto conta il ruolo di un comandante-padre di famiglia quando è soggiogato e portato alla sua stessa perdizione da una moglie disposta a tutto pur di avere una supremazia? Quando è manovrato, proprio come un burattino, verso il suo totale smarrimento?
Non a caso la figlia Berta prepara, come regalo di Natale per il padre che sembra amare molto, un pupazzo che lo rappresenta; questo elemento, creato dalla figlia e lasciato inerme dopo essere stato buttato da una parte, diventa il simbolo del suo ruolo nel microcosmo familiare in cui a decidere le sorti di casa sono le donne e coloro i quali si lasciano plagiare da pensieri privi di ogni razionalità: il pastore (Gianni de Lellis) e il Dottor Östermark (Michele Demaria). L’Adolf-Lavia infatti, si svuota progressivamente delle sue certezze e, proprio come quel fantoccio dalla testa di legno, si lascia manovrare dalla mano della moglie-burattinaio che indossa come un guanto la sua anima, le sue gesta e infine la sua mente, razionale e «lontana dalle leggi di Dio».

Differentemente dalla marionetta controllata a distanza, infatti, il burattino presuppone un contatto diretto con chi lo muove e che “trasferisce” in lui inclinazioni e tendenze nella sua già grottesca natura. E burattini sono anche Ludvig (Luca Pedron) e Nöjd (Ghennadi Gidari) , i due soldatini che rispondono agli ordini e si muovono in maniera meccanica, con le braccia fisse e le mani chiuse vicino ai fianchi. Ci si accorge che a dare gli ordini è soprattutto lei, Laura, quando vuole che si compia un’azione senza ripensamenti, ad esempio il fare indossare la camicia di forza al marito che ormai tutti credono pazzo. La follia del Capitano Adolf è sancita (finalmente, per la moglie) da un gesto estremo con cui si chiude il primo atto. Tutta la seconda parte, infatti, procede in questo già avviato anti-climax che porta progressivamente il duro e sicuro ufficiale, appassionato di astronomia, a un ritorno alla dimensione infantile: docile, ubbidiente ma soprattutto impaurito al punto di lasciarsi quasi proteggere, accucciato in grembo alla Balia. La scena, svuotata di tutti gli elementi della casa, resta sgombra e distinta solo da imponenti teli di velluto rosso; rosso allora come il sangue del parto, rosso come simbolo stesso della vita. In questa metafora, anche visibile, del ritorno all’utero materno, emerge l’archetipo primordiale che riporta al senso di una condizione umana in cui siamo protetti ma anche “prigionieri”, in cui vittime e carnefici appartengono allo stesso ciclo di nascita, morte e rinascita. E allora tutti, non solo il Padre-Capitano, sono vittime di questa tragedia in cui «l’orrore, il male, l’ingiustizia che passa» nel nucleo familiare, diventano le catene che cingono «la strada di ogni uomo».

Firenze – TEATRO DELLA PERGOLA, 16 gennaio 2018

Laura Sciortino

 

Il PADREdi: Johan August Strindberg; con: Federica Di Martino e con Giusi Merli, Gianni De Lellis, Michele Demaria, Anna Chiara Colombo, Ghennadi Gidari, Luca Pedron; scene: Alessandro Camera; costumi: Andrea Viotti; musiche: Giordano Corapi; luci: Michelangelo Vitullo; regista assistente: Simone Faloppa; regia: Gabriele Lavia; scenografo assistente: Andrea Gregori; suggeritore: Sebastiano Spada; produzione: Fondazione Teatro della Toscana; ritratti e foto di scena: Tommaso Le Pera

 

 

 

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