“Il Pifferaio Magico” e il mondo delle favole con le marionette dei fratelli Colla

È ormai tradizione che, durante le vacanze natalizie, ritornino al Piccolo Teatro le marionette di Carlo Colla & Figli. L’ultima produzione, Il pifferaio magico, ospite del Teatro Studio (da oltre un anno intitolato a Mariangela Melato), offre l’occasione per una breve riflessione sul teatro di figura.

È tuttora diffuso il pregiudizio che lo considera una forma minore di teatro: una valutazione che non sarebbe accettabile neanche per lo sbarazzino, popolare burattino a guanto, con la sua vitalità diretta, la semplicità di struttura, l’instabile precarietà della baracca. Ma nel teatro delle marionette, oltre alla sapienza artigiana della manipolazione è insita una raffinatezza costruttiva, una cura del décor, degne delle più sofisticate messe in scena del teatro di tradizione. In più, in esso emerge con maggior evidenza l’intrigante magia dalla finzione, a un tempo scoperta e ingannatrice; il fascino rituale del levarsi del sipario, sempre più raro nel teatro moderno. È da ricordare, inoltre, che le voci delle marionette dei Colla sono, da almeno quarant’anni, quelle di grandi attori dell’ambiente teatrale milanese: da Gianni Quillico, a Marco Balbi, a Franco Sangermano, a Roberto Carusi.

Nell’ormai plurisecolare attività della compagnia, si individua spesso anche un assunto etico, quando non addirittura un impegno sociale, una lettura originale della storia o della società.

Nel solco della tradizione dei vecchi marionettisti, che amavano riproporre, a modo loro, le grandi opere liriche, ad uso delle classi sociali cui il grande teatro era precluso, i Colla hanno ancora in repertorio un’Aida a lieto fine. Creata nell’80 da un’idea dell’etnomusicologo Roberto Leydi e con la supervisione di Strehler, lo spettacolo mostra i due infelici amanti che, facendo saltare la roccia col salnitro grattato dalle pareti, si procurano un’uscita dalla cripta ove sono stati murati vivi e, nel finale, scendono felicemente il Nilo su una feluca.

Il Gran ballo Excelsior è un gioioso inno al positivismo, all’entusiasmo per le conquiste della tecnologia, in particolare la luce elettrica. La compagnia Colla lo mette in scena alla fine del XIX secolo, nel ’95, anche qui, ad uso di una fruizione popolare, rifacendosi al fortunato, innovativo balletto prodotto dalla Scala quindici anni prima.

In Pocahontas, proposto negli Stati Uniti nel 1985 e portato in Italia nel ’90, anticipando il film di Disney (che è del ’95), non è difficile leggere, una delicata ma esplicita riflessione critica sul colonialismo, sulla distruzione e omologazione delle culture cosiddette primitive.

Anche nel Pifferaio ritroviamo la maestria figurativa, l’attenzione ai particolari che caratterizzano la poetica della compagnia, i giochi prospettici visti nelle Mille e una notte, le suggestioni paesaggistiche di Michele Strogoff. Assistiamo al buffo scodinzolare di un cagnolino, ma anche al lento, magico quasi impercettibile trascorrere della luce, dal tramonto alla notte e – quasi una scommessa impossibile nel teatro di figura – la emozionante rilevanza espressiva di alcune scene mute, come nella scena della fuga dei ragazzini.

La favola dei Fratelli Grimm, col suo tetro, cupo finale – peraltro comune a tante favole germaniche – trae forse origine da una crociata dei bambini, un tema ricorrente fin dal medioevo, e purtroppo non estraneo neppure alle cronache dei nostri giorni. La drammaturgia di Eugenio Monti Colla, direttore artistico della compagnia, modifica la storia, inserendovi elementi che ne arricchiscono il significato. È lui stesso a confidarmi di aver ripescato dai suoi personali ricordi uno sconvolgente Oktoberfest, e di aver aggiunto personaggi costruiti sul modello tratto dalla sua frequentazione di politici e amministratori.

L’atmosfera della cittadina della Sassonia, teatro della vicenda, trasuda opulenza e volgarità, disprezzo per qualsiasi attività che non sia finalizzata a conseguire potere e denaro. Da questa visione della vita è esclusa l’arte, la poesia, ma anche tutto ciò che non consente l’omologazione. Né i gretti, scostanti consiglieri comunali, né la vecchia, né il Hans – il giovane poeta zoppo – compaiono nella favola originale. Ed è importante che quest’ultimo sia rappresentato come un reietto, un diverso; come peraltro il misterioso forestiero musicista. Ma toccherà proprio loro riportare l’armonia, il rispetto, la dignità in una comunità che ha perso i suoi riferimenti, in una società ridotta in frantumi.

Un messaggio di notevole attualità in questi nostri tempi che hanno visto, negli ultimi vent’anni, una sconcertante eclissi di valori etici.

Claudio Facchinelli

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