Il Torino Fringe Festival e la rinascita del Teatro

Negli ultimi anni sono nate in Italia alcune vetrine teatrali denominate Fringe, cioè frangia, margine, sul modello degli storici Fringe Festival di Edinburgh e di Avignon. A questo fenomeno sarà il caso di dedicare qualche riflessione più approfondita, ma vorrei intanto registrare, a caldo, alcune cose viste nel corso di una visita, ancorché frettolosa, a quello che, ormai alla sua terza edizione, si è tenuto a Torino dal 7 al 17 maggio scorsi.

Cercando di evitare la trappola di etichette che, in passato, si sono applicate a forme e strutture di un teatro che, sbrigativamente, si qualificava come alternativo, quella cui mi sono affacciato è una realtà che rimane spesso ai margini del flusso della grande distribuzione, ma che non si incontra neppure nei luoghi deputati del teatro di ricerca. Cito in ordine sparso.

2Dieci, di “Narramondo” (Genova), è una serie di schizzi drammatici scritti da Andrej Longo (dieci, come i Comandamenti, che segnano l’itinerario narrativo), incarnati da una strabiliante Elena Dragonetti, unica interprete, e regista a quattro mani con Raffaella Tagliabue, che restituisce, per inviluppo, gli umori, i colori, l’etica degradata di una Napoli graveolente, imbevuta di cultura mafiosa. Di volta in volta Elena indossa, a vista, i panni dei suoi personaggi di ambo i sessi: l’adolescente resiliente, quello sfigato o stupido, la minorenne che affronta un aborto, forse frutto delle voglie incestuose di un padre violento ubriaco, con un talento che avvolge e inchioda emotivamente il pubblico, risucchiato suo malgrado in un “aer senza stelle”, disperatamente reale.

2Apparentemente leggero nel linguaggio e nel genere, ma non meno inquietante nel messaggio, The Quirinal, di “Onda Larsen” è una parabola in forma di show televisivo: un mondo di ascendenza orwelliana, ma dai meccanismi esasperati fino al calor bianco, riportato all’odierna civiltà dell’apparenza, del social network, qui assurto a demenziale strumento di democrazia diretta. L’intelligente, ironica, impietosa scrittura di Lia Tomatis, in scena con Riccardo De Leo, Luciano Faia e un indiavolato Gianluca Guastella, la regia di Alberto Oliva, ne fanno uno spettacolo godibilissimo. Si ride a gola spiegata ma, spenta la risata, rimane un amaro retrogusto: in quel mondo apparentemente irreale riconosciamo, infatti, le modalità comunicative, le manipolazioni della coscienza di massa, delle quali sono intessuti i nostri più popolari talk show.

Con Otello unplugged, la parola alta del Bardo si intreccia con l’ammiccante invenzione mimica del milanese Davide Lorenzo Palla, che ripropone la storia del Moro, col contrappunto della fisarmonica e degli ottoni di Tiziano Cannas. Nella sua riscrittura, Palla condensa in poco più di un’ora l’intera vicenda e, da guitto di razza, ne incarna in leggerezza tutti i personaggi, oltre a un prologo, che riecheggia l’incipit dell’Enrico V, laddove si rivendica la forza evocativa della finzione scenica, quasi un manifesto della più autentica identità del teatro.

Le cose, del torinese “Il cerchio di gesso”, è uno stimolante studio, ancora in progress, nel quale la regia di Girolamo Lucania si cimenta con un testo di Perec: una sfida ardita, volta a rendere teatrale lo spessore della parola cartacea; un lavoro che, nelle scelte drammaturgiche e scenografiche, guarda esplicitamente al cinema francese di Truffaut, di Rohmer.

Il re ride, della napoletana “Compagnia informale” è una truculenta favola gotica, riscritta e diretta da Luisa Guarro, interpretata con efficacia da Francesco Campanile, Luca Di Tommaso, Luca Gallione. Molti i momenti di grande efficacia poetica a teatrale ma, alla completa riuscita spettacolare del lavoro non giova un assunto, piuttosto ambizioso, di parabola sulle dinamiche e sulla violenza del potere, che rende oscure alcune scelte drammaturgiche.

Ma, a prescindere dalla quantità e dalla buona qualità degli spettacoli (45, proposti in 10 sedi diverse), è l’iniziativa nel suo complesso, arricchita da manifestazioni di teatro di strada, di seminari, di incontri, che merita attenzione, in quanto occasione di visibilità di giovani artisti, usciti da prestigiosi luoghi di formazione teatrale, e di valorizzazione di spazi non canonici: per tutti, il circolo Arci “Cubo, Officine Corsare”, invaso da una gioventù culturalmente curiosa e vitale; o le fascinose volte sotterranee in laterizio dello “Spazio Ferramenta”, situato in quel rinnovato quartiere torinese, già famigerato e infrequentabile, che è il Quadrilatero.

Forse, come già nelle cantine romane di cinquant’anni fa, dopo un lungo letargo creativo, nel teatro si sta risvegliando qualcosa di nuovo.

Claudio Facchinelli

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