Il Trionfo del Dio Denaro
Navello e le metafore del mito

C’è una dichiarata corrispondenza di amorosi sensi che da anni lega Beppe Navello a Marivaux, e che lo induce a tentare la scommessa di mettere in scena un suo testo poco frequentato, Il Trionfo del Dio Denaro, inedito in Italia prima che egli stesso ne curasse la versione e la pubblicazione.
In esso, è proprio l’amore ad essere sbeffeggiato, a favore di interessi meno nobili, quale appunto la cupidigia del denaro.
In quella morale così cinica, esposta con brutalità e senza alcuna riserva critica, e data per vincente – ancorché attraverso una trasparente metafora mitologica – lo spettatore odierno ha modo di verificare come, in una società che dista da noi quasi tre secoli, valga la stessa deriva di valori, la medesima etica comportamentale che pervadono i nostri giorni.
La regia di Navello sceglie di intrecciare questo trasparente riferimento al contemporaneo con uno spiritoso ammiccante recupero di lettura filologica.
A questo scopo, inserisce l’espediente meccanico del deus ex machina, utilizzato nella tragedia greca per calare dall’alto un dio che rimette le cose a posto, ma ripreso anche nelle fastose scenografie della Francia del Re Sole: il cestello di una mongolfiera cala da un tempestoso squarcio di nuvole alla Tiepolo, per far scendere sulla terra, sotto mentite spoglie, il dio Plutone.
Coerentemente con questa cifra, un piccolo ensemble musicale con parrucche e costumi settecenteschi, apre lo spettacolo con musiche di sapore barocco, per poi virare maliziosamente, sul finale, nel repertorio contemporaneo.
L’impianto scenografico è accurato, ed ha il fascino d’antan dei vecchi libri con le illustrazioni in rilievo: minuscoli teatrini che sorgevano, come per magia, sfogliandone le pagine.
L’assunto della favola è enunciato fin dalla prime battute, e l’esile sviluppo della vicenda si snoda lungo binari prevedibili, senza scarti, senza coup di théâtre. Non troviamo, nel testo, neppure i segni di quello stile raffinato e galante, a volte chiacchiericcio inconcludente, che caratterizza spesso la tessitura dialogica del Nostro e che, proprio dal nome di lui, Diderot ha chiamato: marivaudage.
Gli attori – un gruppo di giovani volonterosi, formati in varie, prestigiose scuole italiane di teatro – sono bravi, ma è forse il semplicistico schema narrativo del testo che, malgrado le felici invenzioni, le professionalità e la passione profuse, pur sortendo qualche facile risata nel pubblico, non consente allo spettacolo di decollare.
Sommessamene osserverei, a titolo di esempio, che l’inserimento della musica dal vivo poteva essere più coraggioso. Oggi, con una tastiera elettronica, si riesce a riprodurre persino il galoppo di un cavallo: perché non farci sentire nei brani barocchi, accanto al violino e al clarinetto, l’asciutto, pungente timbro del clavicembalo, per passare poi alla più morbida sonorità del pianoforte per i brani contemporanei?
Si apprezza che gli attori siano in grado di cantare in scena, e non scandalizza il fatto che l’intonazione non sia sempre impeccabile: sono attori che cantano, non cantanti lirici. Ma perché microfonare – e quindi appiattire – pure la voce del soprano, una professionista che si suppone debba sapersi far udire anche in spazi di ben diversa dimensione, rispetto alla sala del teatro Astra?
Ma un amore intenso, sincero, coltivato per anni, come quello che unisce Beppe Navello a Marivaux, può costituire una buona ragione per cimentarsi anche con imprese ardite, come in questo caso.
E l’amore merita sempre rispetto.
Claudio Facchinelli

Lo spettacolo ha debuttato a Torino, a poche settimane dai fatti sanguinosi che, a inizio gennaio, avevano investito Parigi e la redazione di Charlie Hebdo.
La Fondazione Teatro Piemonte Europa, partecipando al dolore per tale tragedia, ha dedicato la produzione al ricordo di tali recenti accadimenti.

Share the Post:

Leggi anche