L’eterna modernità dello Stabat Mater di Pergolesi
rivive alla Domus Ars di Napoli col M° Enzo Amato

 

Stabat Mater di Pergolesi serata del 19 aprile 2019.

 

Poche composizioni sono riuscite ad attraversare indenni i secoli conservando intatti il loro potere evocativo e la profondità stilistica frutto di una divina ispirazione che ne hanno elevato la cifra artistica a modello paradigmatico fregiandoli dell’appellativo di capo-lavori.

Un “percorso obbligato”, dunque, del Venerdì Santo dedicato al testamento spirituale di Giovanni Battista Pergolesi: lo Stabat Mater scritto sull’antico testo medievale redatto da Jacopone da Todi: composizione con la quale il compositore jesino si è effettivamente garantito l’immortalità nell’empireo delle menti illuminate. Ed è ben strano, quasi una beffa del fato, la circostanza per cui l’oramai malato Pergolesi e conscio di essere alla fine dei suoi giorni nei suoi ultimi momenti della vita terrena a Pozzuoli nel 1736 sappia scrivere così profondamente di morte nel suo Stabat da concepirla non come una realtà conclusiva di un percorso in vista di un immaginifico al-di-là, ma come la vita stessa che si trasforma, muta la sua essenza trasformandosi in un anelito trascendente che dia un senso alla vita stessa.

Queste – ad avviso di chi scrive – le ragioni estetiche sulle quali poggia l’intera impalcatura dello Stabat che, per un verso, funse da modello ispiratore per innumerevoli compositori successivi ai quali parve doveroso confrontarsi con il testo di Jacopone, per altro pone serie e severe riflessioni sulle modalità di esecuzione del capolavoro di Pergolesi. Vi è da aggiungere che il Compositore già in campo operistico aveva raggiunto ed aggiunto notevoli spunti di novità che gli garantirono in tutta Europa un successo solido ed incontrastato perché pur rispettando i canoni classici delle opere serie portò all’interno delle singole arie una patetica ed affettuosa vena melodica il cui fascino non tardò ad approdare anche alla sua produzione sacra; in definitiva se la malattia non lo avesse sopraffatto all’età di ventisei anni a chissà quali vertici il suo genio avrebbe condotto la musica.

L’Orchestra da Camera di Napoli, diretta dal maestro Enzo Amato, da tempo si cimenta nella valorizzazione e nella ricopertura del patrimonio letterario musicale del ‘700 napoletano che all’epoca era considerata l’avanguardia europea della musica, ed è un ensemble prezioso da custodire gelosamente nel generale aridume che, ora più che mai, alligna sul patrimonio culturale italiano e, in particolare napoletano, che per un verso si vanta dei suoi nobili natali ma, per altro, nulla o poco fa per tirar fuori dai cassetti le partiture autografe che furono fonti di ispirazione ad una folta schiera di musicisti d’oltralpe, non ultimo Bach o lo stesso Mozart. Composta da giovani concertisti, nella serata dedicata al capolavoro di Pergolesi si è cimentata con impegno sfoggiando un bel suono definito e nitido le cui sezioni strumentali hanno perfettamente reso l’effetto dissonanza di cui l’intero Stabat è disseminato permettendo alle voci di scorrere l’una sull’altra nella costruzione di un elemento definibile come la “metafora del pianto”.

Il direttore d’orchestra Enzo Amato si è rivelato artista perfettamente in grado di gestire i sentimenti e le emozioni che trasudano dalla partitura; con un gesto misurato ha scandito tempi per l’orchestra dal sapore di una narrazione drammaturgica tipica dell’opera, e tale scelta è perfettamente condivisibile sia perché Pergolesi era un compositore d’opera, sia perché i suoi stilemi avevano fatto breccia negli ambienti più accreditati della musica europea, in particolare parigina, stupefacendo le avanguardie culturali di Rousseau, D’Alembert, Hlbach e Diderot che nelle pagine del Nostro ravvisarono la definizione della loro verità tanto a lungo cercata comprendendo che la semplicità e l’umanità di quel ragazzo proveniente da Napoli sgorgasse un linguaggio non ancora tentato di manifestarsi fedeli al reale ed amici della bellezza.

La concertazione, dunque, ha esaltato ogni punto della partitura in una visione superbamente analitica nel bilanciamento dei suoni di ciascun musicista elevandolo quasi al rango ed alla dignità di solista, ed ha messo a nudo il contrasto di sentimenti che Pergolesi provava, nota per nota, allorquando le melodie del suo Stabat affioravano alla sua mente divenendo egli stesso la Vergine Maria che contempla il figlio morto sulla croce, alternando lo sconforto a slanci di verace e baldanzosa speranza perché la morte, come si è scritto, non è la fine ma la trasfigurazione che in una dimensione umana genera due sentimenti opposti ed antitetici: il baratro per una madre che vede il proprio figlio martoriato sulla croce e l’esaltazione della consapevolezza di essere destinati ad un fine superiore, salvifico, mediante il sacrificio individuale ed il martirio. Queste, ad avviso di chi scrive, le direttrici che hanno guidato la scelta narrativa della direzione d’orchestra nel frequente cambio dei tempi, nel conferimento di atmosfere più leggere a punti più cupi, con slanci dell’orchestra alla rassegnazione della quiete eterna.

In definitiva una lettura dello Stabat non convenzionale perché distaccato da visioni – oggi tanto in voga – presuntamente filologiche le quali, nel voler ripristinare una visione interamente metafisica della composizione finiscono col disconoscerne il lato squisitamente umano: il Pergolesi che permea e racconta tanto di se stesso nel suo testamento musicale.

Le voci sono state affidate a due cantanti di sicuro pregio.

Di Alessia Grimaldi si apprezza la morbidezza della voce, la bellezza del timbro e l’eleganza del fraseggio; in particolare si segnala l’interpretazione magistrale del cujus animam gementem ove ha saputo sapientemente gestire gli abbellimenti in chiave drammaturgica descrivendo il pathos della Vergine alla vista del sacrificio del figlio;

Nel ruolo contraltile ha parimenti dato ottima prova Gabriella Colecchia, anch’essa dotata di un formidabile strumento vocale che si caratterizza per omogeneità e corposità: ha rappresentato lo spirito dolente dell’intera composizione sacra in particolare nel sublime brano “Eia mater, fons amoris” conferendo ad esso la giusta profondità drammaturgica nel rappresentare la coscienza collettiva del dolore per il sacrificio di Cristo.

Perfettamente a proprio agio le due cantanti anche nelle non facili parti duettanti in cui hanno avuto perfetta padronanza della parte pur scandite da un’agogica dettata da tempi di allegro scanditi dal direttore d’orchestra. In particolare l’esaltazione del fac ut ardeat cor meum in u autentico slancio di trilli, acciaccature ed abbellimenti affrontati con rigoroso slancio e l’umanissimo, dolente brano conclusivo “quando corpus morietur” (entrambi a ragione ripoposti come bis dal maestro Amato) in cui l’innocenza e la purezza di Pergolesi si rivela in tutta a sua disarmante umanità.

Da notare che il concerto è stato preceduto da due brani raramente eseguiti di Jommelli, compositore Aversano e conterraneo del più celebre Cimarosa, a torto e da troppo tempo dimenticato: una sinfonia inserita nella messa in re maggiore, probabilmente scritta per un evento celebrativo, ed una ciaccona: entrambi frutto dello studio e della trascrizione del maestro Amato al quale si vorrebbe sollecitare più spesso la riproposizione di composizioni del glorioso e lontano ‘700 musicale napoletano.

Gremitissima la sala da concerto, al punto che parte del pubblico non ha potuto prendere parte all’evento a causa dell’incapienza del luogo a contenere tutti: magari una seconda serata avrebbe soddisfatto le aspettative culturali di un pubblico che, a torto, si taccia di essere indifferente alle istanze culturali di un passato che ha fornito la base identitaria dell’essenza partenopea.

Ci accodiamo volentieri al pubblico festante e soddisfatto che ha tributato lunghi e meritatissimi minuti di applausi a tutti.

 

Pietro Puca

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