Maledetti padri amati

Voler dire e non riuscire a dire, ammazzare la possibilità di dire, incastrati nelle proprie
abitudini mentali, nei rancori, nel falso racconto della propria vita, ma soprattutto
soffocati dall’interiore richiesta di un amore che si sente inesigibile, indicibile.
La parola non basta, si ferma, e le azioni circumnavigano, gli sguardi implorano, la
postura sembra cantare apertamente, nella tetragona cecità dei riceventi, troppo feriti e
incarcerati nella propria versione per poter vedere sentire tradurre ricevere.
L’eterna favola del padre antico e del figlio assetato.
Maledetti padri amati della richiesta d’amore, e maledetti figli a cui non si sa dare.
Padri e figli in fuga, e prigionieri del non potersi ignorare.
Il pretesto? Un figlio senza soldi temporaneamente tornato dal padre.
Il testo di Carmine Paraggio – Dall’altra parte (Ar.ma Teatro – Roma, 20-22.9.2024) –
giovane drammaturgo, e qui anche attore in scena, tenta l’eterno racconto, il cui unico
difetto è quello di essere eterno, e dunque a rischio di essere ripetitivo e patetico, se
non si scorcia scultoreamente, teatralmente, uscendo dalle secche vuoi del
naturalismo, vuoi della cinematografia. Infatti il conflitto è ben delineato, per sommi
capi, e con alcune graduali rivelazioni narrative. Ma in sostanza fila lineare per stadi di
litigio, dove le contraddizioni alla fine, in un falso tragico, si risolvono in buonismo post
mortem.
E la linearità a stadi, ed il naturalismo sentimentale, condizionano ed imbrigliano anche
la regia, che procede un po’ ripetitivamente per stacchi luce-buio, con musiche di
commento (prevalentemente canzoni, e ben scelte), sul fondale di una semplice
scenografia d’interni.
Se si eccettua la maestria quindi della drammaturgia musicale – splendida in
particolare la musica sacrale e mesta che apre e chiude lo spettacolo (Parce mihi
domine —di Jan Garbarek) – la regia ed il meglio dello spettacolo si concentrano sul
valore attoriale, superbo in Fabio Fantozzi (il padre), con alti e bassi nei due giovani,
dove talora cede ad un cantilenato artificioso Carmine Paraggio (il figlio), e Serena
Locritani (la fidanzata) si attesta su un costante registro sentimental empatico.
Una regia attenta ai toni quindi sì, ma anche abile nel gestire la grammatica della
prossemica, disponendolo vicini, lontani, con varie posture, a seconda del grado di
comunicazione del momento.
Ma dicevamo … Superbo Fabio Fantozzi?
Sì.
La rivelazione infatti che alla fine scioglie tutto nel patetico buonista – e cioè la lettera
d’amore al figlio del padre morto – sta già in nuce nella sua gestualità, nelle sue pause
attonite e irritate, nella postura trasandata e depressa, negli sguardi sgomenti ed
imploranti, persi nel vuoto, o introversi, con cui dice tutto il contrario di quello che fa. Il
suo dire è continua negazione del figlio, svalorizzazione, sminuimento dell’amore. Il
suo essere dice tutt’altro.
Ma giustamente il figlio – nella rabbia dell’amore assetato e della frustrazione – non
può che stare alle parole, chiedendo lamentando accusando. E quando il conflitto si
scalda anche la recitazione del figlio, posturalmente un po’ rigido, si scalda e migliora
nei toni.
Quale il centro del tragico ?

E’ la parte migliore del testo, la noce di patetico ma anche di poesia, che fa del padre il
vero centro della sofferenza, ed incarnato nella foto sotto lo specchio, che tutto guarda,
e a cui spesso tutti tornano.
La madre assente, la madre morta, ma morta di parto.
Nel culmine del conflitto il padre urla al figlio di odiarlo – quel figlio che lo accusa di
alcolismo, abbandono, frequentazione di prostitute.
Lo odia perché nascendo gli ha portato via lei, la madre, il suo unico grande amore.
Peccato che il giovane drammaturgo abbia voluto poi strafare alla fine, cadendo nella
seduzione di un eccessivo sentimentalismo.
Se si fosse fermato qui. Alla rottura. Con tutta la percezione silente dell’amore che
spinge inespresso.
Invece no.
Il padre andava santificato senza contraddizioni, ed il figlio annichilito nel rimorso.
Non si può uccidere un uomo morto, non si può accusare, e nemmeno si può più
rispondere con amore: è troppo tardi.
Il padre infatti ha nascosto il proprio cancro, e nemmeno si é curato (non vuol più
vivere?).
Muore.
E già qui siamo al ricatto affettivo retrospettivo, da melodramma ottocentesco.
Ma prima di morire ha un mezzo collasso, e quindi la nuova fidanzata del figlio (Alice),
dal padre prima calunniata (una puttana), ora gli diventa amica, e mediatrice di pace
col figlio riottoso.
Last but not least, in una delle ultime scene si vede il padre tremante sigillare la lettera
confessionale che lascerà al figlio, post mortem. Ti ho sempre amato. Non sapevo
dirlo. Mi traumatizzava e bloccava la tua somiglianza con tua madre.
Non resta che il silenzio attonito del figlio nella colpa, annichilito dall’amore, Edipo
evirato della possibilità del rancore, ma sempre assassino inconsapevole della
pulsione amorosa del padre.
Il padre e la madre. La santificazione del grande amore.
Ora, recita la voce off, spera di reincontrarla.
E nel buio danza con lei una danza immaginaria (comunque bella scena
registicamente).
Poi silenzio, e brilla a terra un foglio bianco, con il nome del figlio: Paolo.
La lettera?
Il pubblico applaude e si commuove ad ogni scena, come all’opera. Parteggia.
E ancor più alla fine, sulle note di Garbarek.

Marco Buzzi Maresca

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Dall’altra parte
di Carmine Paraggio
con Fabio Fantozzi, Carmine Paraggio, Serena Locritani
regia e drammaturgia musicale di Mauro Toscanelli
Ar.ma Teatro – Roma, 20-22.9.2024

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