Nelle dimore sabaude la XV edizione di “Teatro a Corte”

La Reggia de La Venaria
La Reggia de La Venaria

Un viaggiatore del ’700 racconta che Torino gli era apparsa “abitata da logaritmi”: espressione che nella sua criptica originalità – non si sforzi, il lettore, di ricordare cos’è un logaritmo –è non priva di suggestività, applicata a una città che ha nel suo patrimonio genetico aristocrazia e provincialismo, operosità e indolente riservatezza; i cui abitanti amano definirsi bôgia nen: quelli che non si muovono, non si spostano.

In questo contraddittorio ma stimolante contesto ambientale si situa “Teatro a Corte”. giunto quest’anno alla sua 15a edizione, un festival che coniuga la valorizzazione di affascinati dimore sabaude – la reggia di Venaria Reale, i castelli di Agliè, di Rivoli, di Racconigi – con la proposta di forme spettacolari, anche audaci, di caratura europea.
L’inclemenza di un’estate dal clima autunnale ha obbligato gli organizzatori a trasferire alcuni spettacoli, previsti in fascinosi spazi all’aperto, in luoghi alternativi, ma la manifestazione è stata ugualmente all’altezza della sua ormai consolidata tradizione.
Ho partecipato solo alle ultime due giornate del festival, articolato in tre corposi fine settimana, ma mi sembra che quanto ho visto costituisca un campione significativo delle scelte artistiche e culturali operate dall’intrepido direttore artistico, Beppe Navello, e sostenuta dalle istituzioni (Comune, Provincia, Regione, Ministero).
Sabato 3 agosto gli spettacoli dovevano rappresentarsi nella splendida Venaria Reale ma, causa la pioggia, si sono visti a Torino.
“A Dance Tribute to the Art of Football”, proposto al teatro Astra, era prodotto della compagnia norvegese Jo Strømgren Kompani, premio Hystrio 2014 per i linguaggi del corpo. Uno spettacolo ove la danza si integra con la parola, il mimo; denso di ironia, di riferimenti culturali; che mostra il rapporto che affratella il calcio con l’altro grande mito nazional-popolare, il melodramma, con citazioni da “L’elisir d’amore” e “Andrea Chenier”. In esso si riproducono i gesti plateali, la violenza, la vanità dei giocatori, finché nel finale una delle interpreti, fin a quel momento acconciata come un maschio, rivela con disarmata malizia le proprie aggraziate forme femminili, mentre i suoi compagni esibiscono sotto la doccia le loro possenti muscolature, come epici, bronzei eroi.
Per “A l’Ombre des Ondes” è stato forse più problematico il trasferimento al Cortile del Maglio, un ampio spazio recuperato dall’antico arsenale, dietro la sede storica del Cottolengo, dominato dalla mole incombente di un gigantesco maglio. Il lavoro è difficilmente ascrivibile ad un genere canonico: “una sosta sonora”, lo definiscono i suoi creatori, il duo parigino Kristoff K.Roll. Gli spettatori – o, meglio, gli astanti – siedono su sedie a sdraio, disposte a raggiera e rivolte all’esterno; ognuno indossa una cuffia auricolare che, per 40 minuti, diffonde suoni, rumori, testimonianze verbali: una modalità spettacolare che ha suscitato non poco sconcerto, ma che mi arrischio a difendere. Rinunciando a pormi la banale, scontata domanda: “ma questo è teatro?”, vorrei sottolinearne la funzione di educazione all’ascolto, un’attitudine che stiamo perdendo. In quei 40 minuti mi sono sorpreso a cercar di decifrare i vari rumori che mi arrivavano alle orecchie, dallo sciabordio delle onde, al chiacchiericcio indistinto, al verso di uccelli. Ma sono anche stato colpito dalla casuale concomitanza che si verificava fra il suoni che mi arrivavano in cuffia e ciò che stava succedendo intorno: il correre di un bambino di fronte a me, mentre un’infantile voce in francese risuona in cuffia; la pioggia battente sulla copertura del cortile, della quale osservavo, senza fretta, la struttura ingegnosa, l’ardito sistema di tiranti di acciaio e puntoni di legno che disegnavano la scomposizione delle forze statiche gioco. Un’esperienza, forse non artisticamente esaltante, ma piacevolmente inconsueta.
Di più immediata e facile godibilità, il giorno successivo, “Passage Désemboîté” dei francesi Les Apostrophés – ma i nomi dei due fondatori, il giocoliere Martin Schwietzke e il musico Jérôme Tchouhadjian, denunciano discendenze aliene. Uno spettacolo itinerante, fra i piccoli, eleganti padiglioni e gli alberi centenari nel parco del Castello di Racconigi, fatto di spericolati e demenziali giochi di equilibrio di oggetti quotidiani, manipolati con un misto di ironia e di stralunata poesia, alla Tati, mentre un’ammiccante fisarmonica proponeva in sottofondo i temi più accattivanti del repertorio francese.
Prima del trasferimento a Torino, per l’ultimo spettacolo del festival, una merenda sinoira, servita nelle fastose cucine del Castello. (Ma qui si rende necessaria una breve nota esplicativa, ad uso del lettore alloglotta: la merenda sinoira è una delle più geniali invenzioni della cultura popolare piemontese, che si potrebbe tradurre con “merenda cenaiola”; un pasto da consumarsi nel tardo pomeriggio, tradizionalmente a base di salumi e formaggi, annaffiato da buon vino, che funge anche da cena).
“Stand Alone Zone”, di Système Castafiore, è stato forse il lavoro più interessante nel pur ricco ventaglio di quanto visto in questo scorcio di festival. Lo spettacolo del gruppo di Grasse si caratterizza per una stretta integrazione espressiva fra video, danza e parola. Quest’ultima è affidata a una sorta di gramelot (ora echeggiante il russo, ora l’inglese, ora costruito con sillabazioni infantili in libertà) in bocca a personaggi dagli abiti dal taglio esotico e l’intensa gestualità. Una didascalia ci informa che siamo in un luogo extraterreno, nel 2813, mentre sulla superficie ricurva dell’ampio fondale si proiettano complessi paesaggi di un futuro che sembra immaginato e disegnato all’inizio del ’900, alternati a inquietanti scorci di archeologia industriale. Inutile cercare di individuare una fabula coerente: chi ci avesse provato viene scoraggiato da un’ultima didascalia, che ci avverte che così si conclude la 37a puntata di un immaginario, improbabile serial. Eppure, da questa storia sconclusionata emana un fascino che cattura. I quattro interpeti sembrano entrare ed uscire dal video, che crea prospettive illusorie, con effetti di grande impatto emotivo. Da citare almeno il gigantesco animale vagamente canino, animato con una maestria che lo fa apparire a un tempo verace e scostante; o il bimbo malato, che la grande testa sproporzionata indossata dall’interprete e l’illusione dimensionale del video rendono credibile.
Ho potuto partecipare solo all’ultimo degli incontri con gli artisti, tenuti nella Caffetteria di Palazzo Reale, nei locali che un tempo fungevano da cucine e dispense. Le compagnie teatrali illustrano le loro poetiche ai critici teatrali, per lo più giovani, alcuni stranieri; si scambiano domande e risposte in una babilonia di lingue, mentre si beve il caffè, come in salotti piemontesi d’antan. Nelle vetrine un tempo destinati alle provviste, che ricoprono interamente le pareti come scaffali di una biblioteca, fanno bella mostra di sé preziosi pezzi di vasellame e grandi vassoi d’argento con impresso lo stemma sabaudo. Una cornice d’altri tempi per un confronto di cultura europee contemporanee, quasi un simbolo della natura felicemente ambivalente, del ponte fra passato e presente che qualifica Teatro a Corte.

Claudio Facchinelli

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