Prostituzione disoccupazione e colibrì

 

Forse anche per la brevità ed i limiti strutturali propri di una piéce teatrale, il
testo di Garret Jon Groenveld, The hummingbirds (I colibrì) – in scena al
Belli di Roma (19-22.6.2024), e poi in tournée a Torino, Genova, Venezia –
pur esibendo i tratti tipici degli universi distopici, non è chiaro e metodico
come 1984, di G.Orwell (1949), o come Il mondo nuovo, di A.Huxley
(1932).
Le cose si intuiscono ed emergono a sprazzi, progressivamente, come
rivelazioni che a poco a poco scuotono l’iniziale sensazione di neutralità
meccanica e lievemente assurda – un po’ nello stile della ripetitività comica
di La cantatrice calva di Ionesco, dell’alienazione lieve ed indolore nello
stereotipo.
Tutto comincia infatti come un balletto meccanico registicamente esaltato
nel suo parallelismo geometrico, a specchio. La scena è nuda. Solo due
scrivanie, con una lei ed un lui, che a turno leggono veloci ed
imperturbabili, ad invisibili questuanti, il loro curriculum, e le considerazioni
distruttive sui medesimi e sulla loro privacy. Conclusioni da cui deriva al
ottanta per cento una mancata possibilità di lavoro, ed in alcuni casi invece
l’invio a lavori sgradevoli, quando non direttamente ‘al fronte’.
Siamo all’interno di una agenzia di collocamento per disoccupati,
governativa, il cui verdetto è inappellabile. A parte l’opzione del fronte,
implicitamente violenta e repressiva (c’è dunque uno stato di guerra
permanente?), manca comunque la possibilità di scegliere. Quello che
viene assegnato va accettato, all’insegna del motto ricorrentemente
enunciato con ottimismo ebete ed efficiente If you can walk you can work
(se puoi camminare, puoi lavorare).
Cito la frase in inglese, sia perché il ritmo qui ha un senso, sia perché la
rappresentazione è stata tutta in lingua, con proiezione di sottotitoli.
Come dicevo, i tratti di questo mondo distopico emergono come una
nebbia, come uno sfondo indefinito, a poco a poco, attraverso la crisi della
donna. Lei e lui – nelle pause – cominciano una blanda socializzazione,
benché non conoscano i rispettivi nomi, o forse proprio nome non abbiano
(sintomo di una società dove l’individuo è solo funzione del sistema).
Lei comunque, pur difendendo la propria privacy, e apparentemente
negando le emozioni, lascia emergere alcuni elementi di disagio.
Prima allude a dissapori col marito.
Poi un giorno arriva in ritardo in ufficio, per via dei mezzi pubblici bloccati
da scontri coi terroristi. L’obiettivo dei terroristi sono gli spogliarellisti,
attaccati anche dai colibrì, entità naturale hitchcockianamente impazzita.
Lei, bloccata nel tram, vede correre per strada gente nuda, col corpo in
fiamme. Gli spogliarellisti ? I terroristi ? Forse uno di loro era suo marito ?
Comunque il marito è scomparso.
Pian piano, orwellianamente, il tutto collassa a gabbia repressiva. Il collega
si rivela da sempre uno messo a spiarla. La si accusa di essere una
terrorista, e ora lei, sola in scena, e smarrita, risponde ad invisibili inquisitori
dietro uno specchio unidirezionale. Lei nega, ha momenti di sconforto,
ricorda con nostalgia un mondo del passato diverso, più libero e naturale,
quando i colibrì le si posavano sulla mano, ed il padre lo vedeva come un
segno di buon auspicio.
Il finale è blando.
Le viene consegnata una lettera di invio al fronte, perché If you can walk
you can work (se puoi camminare, puoi lavorare).

Niente di nuovo sotto il sole. Fulcro da sempre della distopia sono non
rapporto e ruoli fissi. Così se in 1984 sono proibiti sesso e amore, e ok è
solo la riproduzione, qui, come ben prima di Orwell aveva genialmente
intuito Huxley, il sesso anzi è la base per imbrigliare le anime a puro corpo.
In Huxley si arrivava alla procreazione in vitro e alla non famiglia.
Promiscuità e sesso fin dall‘infanzia.
Qui ci si limita alla funzione sessuale normalizzante della prostituzione.
Gli spogliarellisti Carne per il popolo.
E se in Huxley il lavoro ed i ruoli sono irreggimentati in caste, qui, come
vediamo essere oggi, l’arma principale di controllo sembra essere la
disoccupazione, che fa sì che tu debba accettare qualsiasi cosa.
Una società distorta, che uccide la natura umana, e che provoca
simbolicamente anche la ribellione della natura.
Non a caso il titolo è I colibrì.
I colibrì sembrano il condensato dell’anima, col loro frenetico e delicato volo
per tenersi in equilibrio di fronte al fiore da cui suggere il polline. Ma forse
anche simboleggiano la frenesia a cui la vita moderna ci obbliga per restare
in volo. Sono uccelli, ma sembrano api, ma forse ora sono diventati droni,
elementi di distruzione.
In ogni caso, dato per scontato che poco di nuovo si può dire di distopico, il
colore sta nel ritmo, che qui è il sigillo della bravura del regista, oltre che di
una abile gradazione insita nel testo stesso.
Così il collasso tragico procede per quadri meccanici via via più rallentati e
distonici, intervallati da musiche ossessive, ed attraverso una sapiente
progressiva divaricazione recitativa dei due protagonisti.
Lei sempre più attonita e svuotata, a tratti sognante e disperata.
Lui sempre più efficientemente persecutorio, crudelmente ricattatorio,
ottimisticamente dimostrativo
Il senso appare chiaro, l’emozione arriva, ma non si disprezza di poterne
parlare e, aldilà della calorosa adesione del pubblico, che applaude a
lungo, non si può non apprezzare la proposta che segue.
Come direi mai si vede in Italia, questi americani (lei italo americana), dopo
settimane di successo in America, e di fronte qui ad un pubblico scarno,
rilanciano comunque il contatto, e si danno disponibili al dibattito, che sorge
lungo e fertile, moltiplicando interpretazioni e proposte.

Marco Buzzi Maresca

The hummingbirds (I colibrì)
di Garret Jon Groenveld
Con Francesca Ravera e Leonardo Gòmez
Regia di Kim T. Sharp
Assistente alla regia – Kate Gavin
Scenografia di Emily Hao-Yun Hsieh
Disegno luci – Zee Hanna
sound design – Jason Lee
Sottotitoli – Ludmila Gabusi

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