“We love Arabs”, una «sensazione fisica»

Sul palcoscenico del Rifredi, Hillel Kogan e i cliché della politica al servizio di una danza ironica e in divenire

Al Teatro di Rifredi di Firenze arriva “We love arabs”, lo «spettacolo impossibile» dell’israeliano Hillel Kogan; insignito dell’Outstanding Creator of 2013 e già presentato lo scorso luglio al Festival d’Avignon Off, il lavoro del performer multi talentuoso – come molti l’hanno già definito – è una vera e propria combo di elementi che co-esistono.

Insieme all’interprete Adi Boutrous, l’ex danzatore oggi direttore prove del Batsheva Dance Company di Tel Aviv, porta in scena quasi nella forma di un aneddoto coreografico, il difficile rapporto tra ebrei e arabi. Due interpreti, due religioni, due contesti culturali, due elementi che permettono di esplorare i territori e i confini di questi temi: la danza e la parola. Movimento, come lingua universale, e verbo, come ciò «che sta in principio», sono le due parti di una stessa esperienza fatta di elementi autonomi ma che sono in continuo dialogo nella forma di una necessaria contaminazione. Le due religioni sono accostate nel senso etimologico del termine, in qualcosa che – non a caso – non è davvero del tutto chiarito; argomenti che hanno bisogno di una una relìgio, una “rilettura”, o che devono essere presi come un fenomeno che “lega, vincola” l’uomo a un credo, a una certa visione delle cose, o ancora, al contrario, a un’esperienza che separa giusto e sbagliato, sacro e profano, islamista e ebraico. Lo spettacolo è costruito su di una lunga fase creativa: il coreografo spiega e dà delle definizioni (in inglese) sul come -e perchè– il suo corpo e quello dell’interprete dovranno approcciarsi rispetto allo spazio e a chi, in quello spazio, è presente.

È la scena che abitiamo a definire il concetto di esistenza o, al contrario, è il nostro corpo che «penetrando» lo spazio permette a questo di esistere? Kogan pone allo spettatore, ma anche a se stesso, domande cui è difficile trovare una sola risposta, quella in grado di soddisfare le “posizioni” di ognuno. In ausilio e sussidio al limite umano di non potere -o volere- esprimere a parole le definizioni che vadano a chiarire certi interrogativi, entra in gioco il corpo che prova, con il movimento, a completare, integrare, o semplicemente ad aggiungere qualcosa all’incompleta definizione. Frammenti di testi (sopra titolati in italiano) e frammenti coreografici sono come un invito per chi guarda a entrare dentro la danza stessa ma soprattutto dentro i temi e l’umorismo con cui questi sono trattati.

«Io sono nel ruolo dell’ebreo, e tu…», alle parole si aggiungono i simboli che marchiano l’identità di ognuno: la stella di David e «il croissant delle moschee», nonché la mezzaluna simbolo della cultura islamica. Sul palco un muro immaginario divide lo spazio in due, nessuno può oltrepassarlo anche se i passi sono identici, «all’unisono». La barriera immaginaria limita i “confini” nei quali ognuno mette in pratica la propria azione, identica, però, a quella dell’altro. Esiste anche un bel gioco di opposti, sia nel presentare attraverso il suo contrario il senso di un assurdo, come quel muro che è (con)diviso, sia nei movimenti e nei gesti dei due interpreti. Stiamo parlando di qualcosa che è «the same but the opposite», come dice lo stesso Kogan, ovvero di una forma perfettamente equivalente a un’altra ma verso la quale abbiamo un punto di vista differente. Le «immagini non sono uguali ma sono le stesse» quando una di essa è capovolta rispetto all’altra, equivalenti quasi in un senso geometrico. Tutto lo spettacolo procede nella direzione di una ricerca, di un’esplorazione del movimento che fa da “sistema”, il GCS “Geometrical Choreographic System” mentre maestro e interprete mettono in pratica, sperimentano e collaudano tutti i possibili esiti coreografici che nascono da un inscindibile confronto. E come in un autentico esercizio di ricerca e studio sulla materia, Kogan invita il tecnico a far partire la traccia audio che poi fa stoppare quando il movimento del suo allievo si presenta solo come esecuzione anziché percezione.

Si chiude in una danza liberatoria “We love arabs” dove un piatto di hummus diventa ciò che permette l’“unione” dell’aspetto, della danza e del linguaggio. Questo cibo, utilizzato come vero e proprio espediente immediato e quasi viscerale, diventa l’immagine che lega le azioni, quindi i significati e, simbolicamente, anche due popoli; è ciò che permette anche un annullamento delle distanze, quelle tra interprete e interprete ma soprattutto tra spettatori e performance.

FIRENZE – Teatro di Rifredi, 19 gennaio 2017

Laura Sciortino

WE LOVE ARABS Testo e coreografiaHillel Kogan; danzatori: Adi Boutrous e Hillel Kogan; musica: Kazem Alsaher e W.A.Mozart; consulenti artistici: Inbal Yaacobi e Rotem Tashach; distribuzione: DdD – Paris

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